Nel mondo delle imprese familiari italiane, è facile imbattersi in realtà che funzionano “a memoria”. Ci si conosce da una vita, si lavora fianco a fianco, spesso si condividono anche la tavola e le vacanze. Ma proprio in queste dinamiche così affiatate, nascono — inavvertitamente — le condizioni per una gestione opaca, inefficiente o potenzialmente pericolosa.
Con l’entrata in vigore del Codice della Crisi e con una crescente attenzione dei tribunali al tema degli assetti organizzativi adeguati, oggi non è più accettabile trattare la governance come un affare esclusivamente “di famiglia”. È responsabilità degli amministratori garantire assetti solidi, funzionali e documentati.
Vediamo allora i cinque errori più ricorrenti che minano la stabilità delle imprese familiari.
Tutto nelle mani di uno solo
In molte aziende il potere decisionale è accentrato in una sola figura. Non sempre per brama di controllo: più spesso per consuetudine. “Decide tutto lui”, si sente dire. Ma questo assetto porta con sé un prezzo molto alto: assenza di confronto, sovraccarico decisionale, rischio di scelte arbitrarie.
Un esempio concreto arriva dal Tribunale di Brescia. In un’impresa meccanica a gestione familiare, l’amministratore unico aveva:
- aumentato il proprio compenso da 40.000 a 300.000 euro annui,
- revocato le deleghe ai familiari con cui era in contrasto,
- riattivato la produzione sospendendo la cassa integrazione, nonostante la mancanza di nuovi ordini e il magazzino pieno.
Scelte effettuate in piena solitudine, senza contraddittorio, senza un consiglio d’amministrazione, senza un piano industriale.
Il risultato?
Un contesto in cui la gestione aziendale si confondeva con le tensioni familiari.
Non molto diverso, nel principio, il caso di una cooperativa agricola esaminato dal Tribunale di Cagliari, dove un amministratore aveva elargito somme a soci (inclusi familiari) senza alcuna giustificazione, alimentando un sistema opaco e privo di regole chiare.
Rischio
Autoreferenzialità, conflitti personali che diventano aziendali, disfunzioni gestionali profonde.
Nessun controllo sui numeri
Un’altra debolezza tipica è la gestione “a occhio”. Niente budget previsionali, niente controllo dei costi, niente flussi di cassa ragionati. Si lavora sull’intuito, ma il rischio è altissimo.
Nel caso bresciano, il budget di tesoreria non era affidabile e l’azienda non aveva un responsabile commerciale capace di pianificare le vendite o leggere il mercato.
Nel caso sardo, la cooperativa vantava un credito di oltre un milione di euro, risalente a più di dieci anni prima, per il quale nessuno aveva mai promosso un’azione efficace di recupero, nonostante fossero disponibili garanzie ipotecarie.
Rischio
Scelte finanziarie scollegate dalla realtà, perdita di liquidità, esposizione ai fornitori e alle banche.
I ruoli assegnati per parentela, non per competenza
In molte imprese familiari, le nomine avvengono per legame, non per merito. I figli crescono in azienda, e quando arriva il momento si trovano alla guida di funzioni complesse — senza un vero percorso formativo o professionale.
Nel caso di Brescia, i figli dell’amministratore ricoprivano ruoli chiave come responsabili della produzione e della progettazione software, pur non avendo le competenze tecniche o gestionali necessarie. Il risultato? Colli di bottiglia operativi, ritardi, clienti insoddisfatti.
Rischio
Inefficienza cronica, frustrazione tra i dipendenti, scarsa autorevolezza sul mercato.
Niente deleghe, niente memoria
In molte realtà familiari, non esiste alcuna formalizzazione: le decisioni si prendono a voce, le responsabilità si distribuiscono informalmente, i processi restano nella testa di pochi.
Questo è uno degli elementi che ha pesato di più nei giudizi dei tribunali: assenza di verbali, mancanza di tracciabilità, deleghe mai scritte o mai revocate formalmente. Un vuoto che si traduce, in caso di crisi o conflitto, in inazione, confusione o paralisi.
Rischio
Impossibilità di accertare chi ha deciso cosa, contenziosi societari, perdita di controllo.
Azienda e famiglia: conti mischiati, regole assenti
Infine, l’errore più insidioso: trattare l’azienda come un’estensione del patrimonio familiare. Capita di usare fondi aziendali per spese personali, o di effettuare prelievi non documentati per “coprire una necessità”.
Nel caso esaminato a Cagliari, la cooperativa era diventata, di fatto, una cassa informale per pochi soci privilegiati. Somme elargite senza documenti, compensazioni non registrate, patrimonio comune gestito come se fosse privato.
Rischio
Responsabilità civili e penali, danni reputazionali, sospensione dell’autonomia imprenditoriale.
Da dove cominciare?
Parlare di assetti organizzativi adeguati non significa “appesantire” l’azienda con burocrazia. Significa proteggere il patrimonio costruito in anni di lavoro, renderlo trasparente, trasmissibile, aperto a nuove generazioni o a nuovi soci.
I casi giudiziari di cui sopra non sono eccezioni: sono il segnale di un’evoluzione in corso. I giudici oggi si aspettano, anche dalle PMI familiari, serietà nella gestione, formalità nelle decisioni, equilibrio nei poteri
Meglio agire prima che subire
Il Codice della Crisi ha reso esplicito un principio semplice: la buona gestione è un obbligo legale, non solo una scelta strategica. Attendere che una crisi imponga un cambiamento può significare perdere il controllo, la reputazione, o la proprietà stessa dell’impresa.
Investire oggi sulla governance familiare significa garantire un domani all’impresa. Non è un lusso. È una responsabilità.
Ecco alcuni strumenti concreti per cominciare a costruire assetti sani:
- Valutazione esterna degli assetti esistenti.
- Deleghe formali e chiara separazione tra ruoli.
- Monitoraggio costante dei numeri e dei flussi di cassa.
- Percorsi formativi per i familiari, in base al ruolo.
- Separazione contabile e patrimoniale tra famiglia e impresa.